Provate l’esperienza psichedelica di Polybius: un’esclusiva per PlayStation VR di Jeff Minter

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Provate l’esperienza psichedelica di Polybius: un’esclusiva per PlayStation VR di Jeff Minter

La storia del fantastico segreto celato nei dintorni della tetra cittadina di Basingstoke, che ha dato vita all'ultima creazione di Minter

Un paio di volte all’anno vado a qualche fiera dei videogiochi, di solito con l’unico interesse al mondo dei giochi rétro. In queste occasioni si trovano persone di tutti i tipi, tutte un po’ nerd e molto divertenti. Di solito pernotto in un hotel dove trovo anche altre persone fissate sugli arcade e passo delle belle serate al bar dell’albergo perché sono persone interessanti con cui si sta volentieri a chiacchierare. C’è sempre quello che si fa una canna e quello che attacca bottone e mi rimprovera di esagerare con i muggiti nei miei giochi, i muggiti non li sopporta. Insomma, si sta lì a chiacchierare finché non se ne può più praticamente tutte le sere della fiera. Belle serate.

L’anno scorso, in una serata particolarmente carica di birra al bar, poco prima che mi alzassi barcollante per poi crollare sul letto, un tipo mi ha chiesto di dargli i miei recapiti. Lì per lì non ci ho dato molto peso, ma me ne sono ricordato qualche mese dopo quando ho ricevuto una telefonata che non mi offriva offerte speciali e sconti. Era proprio quel tipo che, senza mai spiegarmi cosa voleva di preciso, continuava a dirmi che aveva una cosa “straordinaria” da farmi vedere, visto che mi riteneva chissà come qualificato per analizzarla, o cose del genere.

All’inizio ho pensato che gli mancasse qualche rotella ma continuava a promettermi che ne valeva la pena e che aveva a che fare con la storia dei giochi arcade. Alla fine ho accettato di andare a vedere di cosa si trattava, con la speranza che non fosse un assassino seriale o altro. Ho dovuto giurare sulla mia pecora Flossie che non avrei rivelato a nessuno quello che stavo per vedere e che non potevo fare foto o video.

Nel giorno concordato sono partito per la tetra cittadina di Basingstoke* per incontrare questo tizio che mi ha fatto salire in uno di quei sordidi furgoncini su cui di solito i malintenzionati attirano le vittime. Dopo circa mezz’ora di viaggio siamo arrivati in una zona industriale mezza abbandonata. Non posso dire che mi sentissi molto rassicurato alla vista di quel posto ed è stato con una certa ansia che sono entrato in uno squallido capannone. Ma mi sono sentito subito meglio quando il tipo ha acceso le luci ed ho potuto vedere una serie vastissima di classici giochi arcade, la maggior parte pronti per giocarci, altri in fase di riparazione. Era una vista meravigliosa, rara di questi tempi se non nelle ricostruzioni in realtà virtuale degli arcade degli anni Ottanta. Ne era valsa la pena fare tutta quella strada anche solo per avere la possibilità di giocare con alcune di queste vecchie rarità.

Ma non mi aveva portato lì per questo.

 

Polybius

In un angolo, coperta da un lenzuolo, c’era una postazione di gioco dalla forma strana. A questo punto mi ha ricordato le condizioni per poter vedere cosa nascondeva quel lenzuolo: niente foto o video, niente descrizioni dettagliate del gameplay, nessuna località che potesse far identificare il luogo preciso, se non la vicinanza con la tetra Basingstoke. Le descrizioni generiche andavano bene. Il titolo del gioco era leggendario. Anzi, mitologico.

Dopo aver accettato ancora i termini della questione, hanno tolto il lenzuolo e ho potuto vedere la postazione dai contorni tondeggianti, il look essenziale di un nero inquietante. Sul davanti spiccava un joystick rosso, sembrava quasi anatomico, era brillante e aveva una miriade di pallini argentati.

Questi pallini erano i terminali di quello che il mio ospite ha definito “il laccio sensore/effettore”. Quando ha aperto il pannello posteriore ho potuto vedere gli interni: tre schede elettroniche piene di chip neri, senza etichette, oltre a un paio di moduli che io non avevo mai visto su una scheda elettronica. Una sorta di ragnatela di sottili filamenti scendeva dal pannello di controllo ma non erano collegati alla scheda principale: mi ha detto che era a scopo precauzionale poiché nessuno conosceva con esattezza gli effetti del laccio sensore.

Lo stesso tubo catodico aveva una forma molto strana, con due protuberanze che si immettevano nel tubo principale, un po’ come i primi modelli del tubo a colori di Baird; a quanto sembrava, tutto questo serviva a convogliare una combinazione fluida di grafica raster e vettoriale sullo stesso schermo. Mi era parsa davvero una bella idea per quei tempi, e mi sono chiesto perché Atari non avesse mai concepito un sistema del genere.

Finalmente era arrivato il momento di giocare. Ha chiuso il pannello posteriore e avviato il gioco. È apparso il titolo, fluttuante in quello che sembrava un vuoto infinito e che pian piano cominciava a riempirsi di forme geometriche pulsanti e brillanti in sequenze colorate che neanche Eugene Jarvis avrebbe mai potuto immaginare. Ho preso il joystick e l’ho tenuto stretto in mano, era stranamente caldo e mi è sembrato di sentire un leggero formicolio, ma sono stato subito rassicurato che il laccio sensore non era attivo, quindi doveva essere la mia immaginazione. Ho premuto il pulsante del giocatore singolo e…

Non ci sarebbe stato bisogno di dirmi che non potevo descrivere il gameplay nei dettagli perché non ne sarei stato comunque capace. Il mio primo pensiero è stato che il gioco aveva qualcosa che non andava perché ricordo chiaramente di essermi ritrovato lontano dalla macchina a guardare sullo schermo le parole GAME OVER che lampeggiavano in sequenze di colori in stile Robotron.

Il cuore mi batteva all’impazzata e provavo una strana sensazione, un misto di esaltazione e un’indefinibile e profonda ansia. Era come se mi fossi risvegliato all’improvviso da un sogno e per i primi secondi fossi rimasto completamente confuso. Mi ci è voluto un po’ per ricordarmi che ero a Basingstoke e perché.

L’atmosfera tra di noi era cambiata, non so dire come, e non ci siamo scambiati che qualche parola dopo lo spegnimento della macchina. Uno scambio di sguardi d’intesa ci bastava a capire che quella era stata un’esperienza trasformativa, difficile da esprimere a parole, che trascendeva la stessa realtà di Basingstoke.

La profondità delle sensazioni provate però si intrecciava a filamenti di ansia e allora capii perché questo gioco era stato in fretta ritirato dal mercato, visto il disagio che provocava anche per una sola partita. Alcune delle tecniche usate dal gioco funzionavano bene, come dimostra il senso di ispirazione ed euforia provato. Se si riuscisse a implementare almeno qualcosa di tutto questo in modo da ricreare quegli effetti senza provocare l’ansia profonda e la perdita temporanea di memoria, forse sarebbe possibile…

Durante il mio viaggio di ritorno da Basingstoke, lasciai che questo pensiero mi si depositasse in fondo alla mia mente. Alle spalle mi sembrava di vedere l’edificio della AA che lampeggiava in sequenze di colori in stile Robotron. Tornato a casa però, come al solito, mi sono immerso nella montagna di lavoro da fare. E poi dovevo dar da mangiare alle pecore.

Nei due anni successivi ogni tanto mi venivano in mente sprazzi del gameplay, dei micro-ricordi dell’effetto che quel gioco aveva avuto su di me. Era inutile cercare di richiamare alla mente i particolari di quell’esperienza, proprio come quando si cerca di ricordare i dettagli di un sogno svanito, però erano rimaste dentro di me delle impressioni concrete più ampie. Quella dominante era la velocità, la sensazione di sfrecciare attraverso forme geometriche, circondato da strutture luminose e luci pulsanti, particelle che sembravano penetrarti nella testa.

 

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Poi c’è stato l’avvento della realtà virtuale e allora mi sono cominciato a chiedere se non fosse il caso di raccogliere quel pensiero che avevo depositato in fondo alla mia mente a Basingstoke. Era da un bel po’ ormai che mi occupavo di psichedelia videoludica e forse era arrivato il momento ed il mezzo giusto per provare a realizzare un gioco in cui replicare non tanto il gameplay, ma almeno gli effetti di quella vecchia leggenda. Tralasciando tutti gli aspetti negativi naturalmente.

Cominciammo così a costruire una cornice in cui creare una cosa del genere. Per poter ricreare accuratamente la sensazione di velocità che permeava intensamente il gioco originale, era necessario costruire un motore che potesse fornire tutto quello che ci serviva a 120 FPS, senza perdite di frame e a una risoluzione interna molto alta.

Sistemato questo problema e con la nostra cornice di sintetizzatori luminosi perfettamente funzionante, per la quale c’è voluto un po’ di tempo, siamo riusciti ad avere un prototipo verso la fine dello scorso anno. A quel punto era ancora molto grezzo, solo uno schizzo di quello che doveva diventare e non avevo idea di come sarebbe stato accolto. Uno dei ragazzi che lo ha provato, togliendosi il casco, ha affermato che per qualche minuto gli era sembrato di essere uno jedi.

E questo mi ha dato la conferma di essere sulla strada giusta.

Ora siamo quasi arrivati alla fine e faremo provare qualche livello del gioco il prossimo fine settimana al Play Expo. Il gioco è molto veloce e intenso ma non diventa mai sconvolgente, stressante o sgradevole. Non mi piacciono affatto i giochi che ti fanno sentire più stressato quando li finisci di quando li inizi. Nonostante tutta la velocità e l’iperstimolazione, il gioco produce un effetto rilassante, quasi terapeutico: se mi sveglio imbronciato il lunedì mattina, mi bastano pochi minuti con il casco e mi sento subito felice e sereno. Chi lo ha provato la descrive come la sensazione che si ha dopo una bella meditazione.

Ci auguriamo che il gioco renda onore al titolo leggendario a cui si ispira, senza portare con sé nessuno dei suoi controversi effetti psichedelici. Voglio far provare ai giocatori solo la velocità, il rilassamento, l’euforia.

C’è solo una persona che sicuramente non apprezzerà il gioco. Ci sono un bel po’ di muggiti.

 

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